Dal n° 47 del volume di Approfondimento:
Tommaso Landolfi in America: appunti e riflessioni
di Luigi Fontanella
Ignoto al grande pubblico nordamericano (almeno fino agli inizi degli anni
Sessanta), eccezion fatta per quei pochi happy few – intellettuali cosmopoliti,
aggiornati sui fatti culturali del nostro Paese da loro frequentemente
visitato –, il nome di Tommaso Landolfi fa il suo primo ingresso negli
Stati Uniti nel 1961 grazie a un libro che ebbe una considerevole quanto
ambigua risonanza. Mi ci soffermerò più avanti precisando i termini della
questione e offrendo un’esemplare campionatura della sua contraddittoria
ricezione.
Landolfi, insomma, ignoto non solo al grande pubblico nordamericano
ma quasi del tutto ignorato anche fra gli italianisti d’America, che ancora
oggi, a distanza di più di trent’anni dalla sua morte, lo escludono regolarmente
– tranne rare eccezioni – nei loro corsi; omesso inoltre in quasi tutti
i dizionari statunitensi “ufficiali” riservati alle letterature internazionali, l’unica
presenza dell’autore del Mar delle blatte la troviamo nel Dictionary of
Italian Literature, compilato da Peter Bondanella e Julia Conaway
(Westfort, Connecticut: Greenwood Press, 1979, 1996)...
...che, per quanti fra docenti e discenti si occupano di letteratura italiana, è negli Stati Uniti lo strumento di consultazione più usato. In esso gli autori gli dedicano poco più di una mezza pagina nella quale vengono evidenziati soprattutto il suo lavoro di traduttore dal russo (Gogol, Tolstoj, Pushkin e Dostoevsky) e la sua produzione novellistica, con particolare riferimento a Dialogo dei massimi sistemi, Le due zittelle, Ombre, e Cancroregina. Appena un accenno alla sua poesia (segnatamente il volume Viola di morte). La voce, tutto sommato volenterosa e dignitosa, si conclude indicando possibili ascendenze o genealogie per il Nostro: da Kafka a Borges e, limitatamente al panorama italiano, a Italo Calvino, che per altro era quindici anni più giovane di Landolfi, ma che pure, dello stesso, curerà, com’è noto, una memorabile antologia nel 1982 (Le più belle pagine di Tommaso Landolfi, Milano, Rizzoli, 1982). Un atteggiamento e un interesse, pertanto, verso l’opera di Landolfi, complessivamente irrisori, che mi fanno venire in mente una circostanza autobiografica che vale la pena raccontare. Siamo all’altezza del 1976. Mi trovo presso la Princeton University come Fulbright Fellow. È da questo prestigioso Ateneo che ha inizio la mia esperienza negli Stati Uniti. Fra i libri più recenti che avevo portato con me dall’Italia c’era anche A caso di Tommaso Landolfi (Rizzoli, 1975), un autore da me avidamente letto nei miei anni a La Sapienza. Mi viene l’idea di recensire questo libro per “Italica”, importante rivisita d’italianistica americana. Scrivo a Olga Ragusa, docente presso la Columbia University, a quel tempo curatrice della sezione Book Reviews. Pochi giorni dopo eccomi nel suo ufficio della Casa Italiana, luogo un po’ mitico in cui Prezzolini era stato il patriarca assoluto per oltre vent’anni. Conversazione piacevole con la Ragusa, persona garbata e riservata; mi chiede dei miei studi, dei miei interessi, ecc. Parliamo infine di Tommaso Landolfi, a lei praticamente sconosciuto. La informo, seppure schematicamente, dell’opera landolfiana, cercando, per quanto plausibile, di inserirla in un eventuale, generico filone del fantastico italiano; le dico infine di A caso che avrei piacere di recensire per “Italica”, libro vincitore dello Strega l’anno prima. La Ragusa m’interrompe sbalordita: “Ah, dunque si tratta di un autore vivente?”. Ambiguamente incoraggiato da questa domanda, la rassicuro dell’effettiva esistenza di Landolfi; accenno alla sua eccentricità, la sua leggendaria reticenza, il suo sofisticato stile narrativo, ecc. ecc...
Dal numero 48 del volume di Didattica:
DIDATTICA MODULARE, La Sicilia e il cinema
di Lucia Imprescia
Circola con insistenza l’idea che la Sicilia
e i siciliani siano diversi…
Diversi e più complicati.
La risposta può essere articolata pirandellianamente:
no, ma credono di esserlo, e questo li rende diversi
e più complicati.
( R. Alajmo da L’arte di annacarsi)
L’isola di Sicilia è stata esaltata
in ogni tempo da molti scrittori
stranieri, italiani, ma soprattutto
siciliani che hanno ben capito e
apprezzato, con le loro opere, il
fascino della sua natura selvaggia
e aspra. Dopo averla visitato
in lungo e largo Goethe nel
1787 scrisse: l’Italia, senza la
Sicilia, non lascia immagine
nello spirito: qui è la chiave di
tutto. Crocevia di popolazioni
diverse e centro del mediterraneo,
la Sicilia si è distinta per
l’avvicendarsi di straordinarie
culture, greca, romana, araba,
normanno-sveva, che le hanno
permesso di diffondere la civiltà
nell’Italia tutta. L’italico vate, Giosuè Carducci,
tra la fine dell’800 e i primi del
‘900, intrecciò un fitto dialogo
con i più noti rappresentanti della
cultura siciliana, Capuana,
Verga, De Roberto, dibattendo
con essi sui temi dell’italianità e
della patria. Insignito del premio
Nobel per la letteratura nel
1906, pur non avendo mai visitato
la Sicilia, nelle Rime Nuove
la definì come L’isola bella, a le
cui rive Manda Jonio i fraganti
ultimi baci nel cui sereno mar
Galatea vive, e sui monti Aci.
(1872)
Per la sua bellezza sfacciata e incontaminata,
la Sicilia nel tempo
si è presentata ai registi come un
set cinematografico naturale: il
mare azzurro, la neve dell’Etna,
le distese campagne assolate e
arse dal sole della calda stagione. Inoltre, circondata dalle isole Eolie,
tra l’amabilità di Panarea e
Salina, e l’asprezza di Vulcano e
Stromboli, si mostra ai suoi visitatori
affascinante, misteriosa e
sorprendente. La grande varietà dei paesaggi
che la percorrono diventano
dunque scenografie naturali e,
per chi ama realizzare il cinema,
punti di forza dell’Isola...
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